martedì 7 agosto 2018

LA TALARE NON È PIÙ DI MODA



Qualche giorno fa il vescovo di Roma, parlando ai giovani candidati gesuiti, ha così esordito:
Buongiorno. Sono contento di accogliervi. Grazie tante di questa visita, mi fa bene. Quando io ero studente, quando si doveva andare dal Generale, e quando con il Generale dovevamo andare dal Papa, si portava la talare e il mantello. Vedo che questa moda non c’è più, grazie a Dio.
Sull'argomento avevo scritto il seguente commento:

ritorno sull’argomento dell’abito, perché non è facile da mandar giù. Per il vescovo di Roma indossare la talare è una questione di “moda” del momento. Anche se sono certo che non è “farina del suo sacco”, ma di un sacco molto più rovente, comunque vale la pena di commentare, visto che ne va di mezzo la credibilità di qualcuno, nella Chiesa, ormai in netta minoranza, che invece non ha perso la testa…
Recentemente, arrivando con mia moglie ad un incontro di catechesi a cui eravamo stati “premurosamente” invitati, siamo stati accolti da un tale sui 35, in jeans e giubbotto di pelle, che, per tutta la serata ha fatto interventi, secondo lui, spiritosi, da teatrino improvvisato in serata di addio al celibato… Ad un certo punto, mentre mi arrovellavo sul tema: “.. questo che vole…!!”, chiedo a mia moglie “ma questo …………. chi è….!!??”,  lei, tirandomi un calcio da sotto la sedia “..schhhh…. quello è un prete!!..”       “ahhhh…. non s’era capito !!”.
Ci hanno abbindolato con i luoghi comuni, da fila interminabile del supermercato, del tipo “non è l’abito che fa il monaco…”… solo che i proverbi, che derivano da un deposito di saggezza popolare, vanno bene per i periodi normali. Questo non è un periodo normale… quindi possiamo tranquillamente affermare che “È L’ABITO CHE FA IL MONACO”.
A caldo, sono andato a rintracciare un paio di citazioni, di cui la prima, mi sorprende un po’ visto da dove viene… Non sarà che il periodo che stiamo vivendo è talmente “fuori controllo” che sorprende persino i più insospettabili aconfessionali…
Dal Corriere della Sera del 17 febbraio 2013:
dietro il rifiuto dell’abito religioso vi è una teologia, vi è la negazione protestante di un sacerdozio «sacrale», che distingua il prete dal credente comune; vi è il rigetto della prospettiva cattolica che, col sacramento dell’ordine, rende un battezzato «diverso», «a parte». Il sacerdote non come testimone del Sacro, non come «atleta di Dio» (l’immagine è di san Paolo) in lotta per la salvezza dell’anima propria e dei fratelli contro le Potenze del male, bensì uomo come gli altri, distinto semmai solo dal maggiore impegno sociopolitico….
La seconda da un intervento di Don Roberto Gulino, docente di Teologia:
La questione sull’abbigliamento del sacerdote trova risposta anche nel recente intervento di Papa Benedetto XVI alla riunione plenaria della Congregazione per il Clero avvenuta lo scorso 16 marzo (ne riportava notizia anche l’ultimo numero di Toscana Oggi, del 29 marzo, a pag IV, nella rubrica «La parola del Papa»); il Santo Padre, dopo aver richiamato le dimensioni principali e fondative del ministero presbiterale, conclude con le seguenti parole: «Urgente appare anche il recupero di quella consapevolezza che spinge i sacerdoti ad essere presenti, identificabili e riconoscibili sia per il giudizio di fede, sia per le virtù personali, sia anche per l’abito, negli ambiti della cultura e della carità, da sempre al cuore dell’annuncio cristiano». Si noti bene la scansione, come dei cerchi concentrici, che riguarda prima di tutto la dimensione essenziale ed esistenziale della fede, poi quella dell’atteggiamento concreto nella vita, ed infine l’aspetto di riconoscibilità che può esser dato anche esteriormente dall’abbigliamento.
………….
Perché allora, anche nel ministero sacerdotale, non provare ad «essere» ed «apparire»? Ripeto: non solo apparire, ma «essere-ed-apparire»; non per lo scopo di farsi vedere e ricevere l’applauso dalla gente (avremmo già ricevuto la nostra ricompensa!), ma per comunicare ed annunciare che abbiamo incontrato il Signore, che Lui ci ha chiamato e che noi proviamo a seguirlo nelle nostre povertà.
Del resto penso sia questo lo spirito che spinge un tifoso della Fiorentina (mi si passi l’esempio calcistico) a portare con orgoglio la sciarpa viola o la maglietta del suo calciatore preferito, per far vedere a tutti che la sua squadra del cuore è quella e non un’altra.
In questa dimensione della testimonianza si possono comprendere le parole del Direttorio per la vita dei presbiteri che al numero 66 dice: «Il presbitero deve essere riconoscibile anzitutto per il suo comportamento, ma anche per il suo vestire, in modo da rendere immediatamente percepibile ad ogni fedele, anzi ad ogni uomo, la sua identità e la sua appartenenza a Dio e alla Chiesa». Il testo del Direttorio continua riportando il canone 284 del Codice di Diritto Canonico: «I chierici portino un abito ecclesiastico decoroso, secondo le norme emanate dalla Conferenza Episcopale e le legittime consuetudini del luogo». Per quanto riguarda la nostra Conferenza Episcopale Italiana, il 23 novembre 1983 è stata emanata la seguente norma, in vigore dal 23 gennaio 1984: «Salve le prescrizioni per le celebrazioni liturgiche, il clero in pubblico deve indossare l’abito talare o il clergyman».
Quindi, non è proprio una questiona lasciata alla libera scelta del singolo sacerdote.
SIC TRANSIT GLORIA MUNDI…




martedì 17 luglio 2018

EPISODI MINIMI...

Ci sono fatti che mostrano, qualora ce ne fosse ancora bisogno, quanto la migrazione della religione Cattolica verso la religione “universalista” non sia in corso ma sia già un fatto compiuto, anche dalle mie parti, come altrove. Potrei riferire di comunioni “servite” da signore, non tanto “straordinarie”, in gonna con lo spacco e tacchi a spillo, come fossero caramelle ai bambini della colonia estiva, omelie dove si ridicolizza chi applica la pratica del digiuno o incontri con i giovani sul vangelo secondo De Andrè e molto altro ancora. Siamo nella nuova religione, solo che non dobbiamo rendercene conto, non bisogna manifestarlo, siamo tutti arrivati, più o meno inconsapevolmente, da parte di alcuni molto consapevolmente e opportunamente, al paese di Bengodi dove “stanno genti che niuna altra cosa fanno che far maccheroni e raviuoli e cuocergli in brodo di capponi”, dove sono buoni anche i cattivi, dove tutto è uguale, senza differenza tra bene e male, dove la luce scintillante del nuovo umanesimo digitale offusca l’inganno di essere nel paradiso in terra, prima della profanazione dell’albero della conoscenza. E’ il risultato dell’indottrinamento acritico, applicato alla religione, proprio come profetizzato da C. Lorentz. Chi potrebbe parlare non parla ! C’era più coraggio del proprio pensiero nella Germania comunista ! Ma non tutto fila liscio, qualcuno non ci sta e, semplicemente, pone domande. Ma le domande sono come frecce micidiali, mirate e diritte. L’unica via di scampo è schivare. I due episodi, di seguito riferiti, sono modi diversi per eludere domande, piccole ma troppo scomode, impertinenti e scorrette, da parte di “…guide cieche, che colano il moscerino e inghiottono il cammello”.
Ieri mattina, 16 lug 2018, in macchina, ascoltavo su Radio Maria la catechesi, in diretta, di Padre Livio. Tralascio ogni considerazione sulla attuale conduzione di questa radio, diffusa in tutto il mondo, di cui sono noti i meriti. Dico solo che ho scritto più volte a Padre Livio, che non si può certamente definire un progressista, senza avere mai risposta, sulla situazione attuale della Chiesa. In una delle sue digressioni, attorno alle 10.10, parlava della natura divina di Gesù, ovvio, della serie “...fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro. Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate” G. K. Chesterton. Dopo la catechesi, c’erano le telefonate degli ascoltatori. Si presentava un signore, dall’accento toscano, che in modo tranquillo e rispettoso, riprendeva l’argomento dicendo che, oggi, molti, anche religiosi, parlano di Gesù come fosse un profeta, senza mai professare la sua natura divina. Mentre poi si metteva ad argomentare sulle ragioni di questo fatto, tirando in ballo la Chiesa, furtivamente invocando il sostegno di padre Livio, improvvisamente cadeva, non la linea del telefono, ma la trasmissione. Per radio non si è sentito più nulla, solo i rumori delle interferenze di altre radio. Per circa due minuti vuoto di emissione. Poi, dopo una decina di minuti di musica sacra si ricominciava a sentire, a tratti, la voce del conduttore. Silenzio, poi ripristino del collegamento: Padre Livio dice che c’è stato un problema tecnico, lui parlava ma la sua voce non veniva trasmessa. Nessun accenno alla telefonata, solo una ripresa dei concetti già espressi, i saluti di rito e fine della trasmissione. Solo una fatale combinazione ? Non è la prima volta che mi capita, ascoltando Radio Maria… Chissà che cosa penserà Colei, a cui di certo non manca il coraggio, di cui si è autoproclamato “portavoce”. Padre Livio è un “potente” ma non “rovesciato” dal trono…

In un ospizio per signore anziane, delle mie parti, gestito da suore di un ordine religioso “cattolico romano”, dove mi reco spesso per una persona ivi ospitata, mi è capitato di vedere, affisso in ascensore, un cartello di auguri per le prossime ferie. Il cartello non è altro che una grande foto in cui non è difficile riconoscere il ponte di Mostar. Inquadrata dal grande arco del ponte (un abbraccio ?) la moschea islamica. Incuriosito, ma anche contrariato, chiedo alla suora addetta alla portineria di poter parlare con la Madre Superiora. Al suo diniego motivato dal fatto che “è difficile parlarci..è molto impegnata” e al classico “.. per che cos’era ?..” rispondo che avrei voluto chiederle il motivo di quella foto aggiungendo che mi sarei aspettato, da parte loro, un augurio più in linea con i contenuti della nostra Fede, un richiamo a simboli cattolici… Che cosa ci volete fare, appartengo ad una generazione dove, da bambino, i religiosi e le religiose erano soliti salutare con l’unica formula “sia lodato Gesù Cristo”.. La risposta della suora è stata schietta, chiara, inequivocabile, finalmente in linea con “il vostro parlare sia Si, Si, No, No”: “questa è casa nostra e facciamo quello che ci pare !”.

Intelligenti pauca… Claudio Gazzoli - 17.07.2018 - Monterubbiano (FM)

venerdì 25 maggio 2018

LA "PREVENZIONE" DI STATO


Ho provato ad intervenire nel dibattito seguito alla caduta del tetto dell'Istituto Tecnico "Montani" di Fermo e ai successivi provvedimenti degli Enti proprietari di altri edifici scolastici. E' molto problematico, per un  cittadino qualunque, diffondere critiche circostanziate al sistema. Solo il sistema, di cui ovviamente fa parte la stampa lautamente finanziata dal sistema stesso,  può fingere, dall'interno, di fare critiche con il solo scopo di "lasciare tutto com'è".

Ho insegnato per 4 anni nella scuola in cui è caduta una parte del tetto a Fermo. Quell’edificio scolastico, come molti altri, era stato concepito, come convento di frati. Le aule erano dormitori e hanno mantenuto quasi del tutto la struttura, l’acustica, la vivibilità, di trecento anni fa’. Ambienti ridicoli e obsoleti se confrontati con quelli che le aziende virtuose mettono a disposizione per la formazione dei loro dipendenti. Ora l'ente proprietario ha deciso di chiudere diverse altre scuole, a 2 settimane dalla fine dell'anno scolastico, sottoponendo studenti e genitori a notevoli disagi.
Mi chiedo se la sicurezza oggettiva degli altri edifici sia legata, in qualche modo, magari per “simpatia” o risonanza, a quell’evento o se tali frequenti accadimenti destino, in modo repentino e apprensivo, l’interesse di chi dovrebbe invece vigilare costantemente e, in una parola, prevenire.
La parola “PREVENZIONE” è citata ben 195 volte nelle 925 pagine del Decreto 81/2008 edizione giugno 2016. Si tratta della legge di riferimento riguardante la sicurezza del lavoro che trova applicazione anche nelle attività scolastiche, in considerazione del fatto che sono, comunque, attività lavorative in ambienti considerati, a tutti gli effetti, ambienti di lavoro. Senza entrare in considerazioni di tipo giuridico sull’applicabilità o meno dei requisiti del Decreto agli edifici scolastici, mi preme fare le seguenti considerazioni. Lo Stato obbliga i cittadini al rispetto di una legge che pone la prevenzione al primo posto delle attività che devono essere messe in atto per eliminare il rischio di incidenti o di conseguenze per la salute dei “lavoratori” e quindi "cittadini". Pertanto il principio della prevenzione e della sistematica, oggettiva “analisi del rischio”, che ne costituisce il presupposto, è assunto in modo forte da parte dello Stato quale valore primario per la tutela della sicurezza, in qualsiasi campo. Non dovrebbe quindi essere l’amministrazione Statale, per prima, a dare il buon esempio? Adottare sistematicamente il criterio di intervenire solo a seguito del verificarsi di eventi calamitosi è esattamente il contrario dei principi che lo Stato si è dato, sia, in modo diretto, con leggi specifiche, sia, in modo indiretto, ma molto più autorevole, con la stessa Costituzione. Sarebbe come se un datore di lavoro, denunciato per non avere rispettato gli obblighi di legge, dichiarasse al giudice di provvedere all’analisi del rischio e alla messa in sicurezza delle attrezzature vetuste solo dopo il verificarsi di un incidente grave.. ovvio che si prenderebbe una condanna, senza la minima possibilità di addurre neanche ragioni di tipo economico. LA PREVENZIONE ALL'ITALIANA! Tutto ciò vale anche, ovviamente, per gli eventi sismici o quelli legati al dissesto idrogeologico, la gestione delle strade ed altri. Senza entrare troppo nel merito basterebbe, per esempio, prendersi la carta sismica italiana dell’Istituto Italiano di Geofisica (Istituzione dello Stato e da esso sovvenzionata) o la tabella allegata alle norme tecniche sulle costruzioni, per capire, decidere, programmare, nelle aree a maggiore rischio, gli interventi più urgenti in tema di terremoto, prima che esso “fatalmente” arrivi. Se si fosse adottato tale principio di PREVENZIONE, si sarebbero potute risparmiare tante vite umane.. L’applicazione sistematica del principio di prevenzione può essere un circolo virtuoso anche dal punto di vista della crescita economica di questo sventurato paese. Ma occorrono politiche serie di medio/lungo periodo, non politiche di rattoppo di guai di natura strutturale. Non basta sostituire una finestra rotta, qui è tutto l’edificio che sta crollando mentre, in cantina, si fa baldoria! Bisognerebbe cambiare completamente la cultura dello Stato.
Passare dal particolare al generale, dalla improvvisazione alla preparazione, dal populismo alla responsabilità, dalla farsa al decoro, dall’imprevidenza alla prevenzione sistematica, dallo sfacelo di politiche di parte alla salvaguardia di principi comuni di ordine superiore, da criteri discrezionali a criteri oggettivi, dalla esaltazione alla saggezza.

martedì 8 maggio 2018

I SOCIAL MEDIA E LA MESCHINA DIFFUSIONE DELL'ANONIMATO


Una delle peculiarità dei nostri tempi è la diffusa tendenza, favorita dai social media, all’anonimato. Moltitudini di frequentatori della rete usano inviare mail, commenti, in forma anonima utilizzando uno pseudonimo o il solo nome. A me, che in un sito molto seguito, quello del vaticanista Marco Tosatti, facevo constatare questa pratica, è stato fatto notare che anche il nome e cognome può essere anonimo in quanto omonimo di molti altri. Quando poi ho risposto inviando il mio nome, cognome, indirizzo e codice fiscale sono arrivate le faccette di derisione. Ovvio, persino meschino, col paravento dell’anonimato tutto è concesso.
Ma la cosa interessante è che alcuni prelati del Vaticano usano lo pseudonimo per poter dire la loro sulla situazione, a dir poco paradossale, della Chiesa Cattolica. Forse hanno paura di essere lapidati come San Paolo a Listri ? Forse hanno paura del martirio ? O forse hanno solo paura di perdere la carica !?
Ad uno di questi anonimi, sedicente Pezzo Grosso, evidentemente della Curia Romana, ho inviato un commento, dopo il suo intervento, sulla situazione politica italiana in parallelo con quella della Chiesa, al seguente link:


........anche se esistessero (come esistono) soluzioni evidenti e reali, queste saranno negate e non si permetterà neppure che vengano messe alla prova. L’Italia deve morire, per far vivere altre nazioni. Purtroppo maturo sempre più la cognizione che il nostro paese è stato tradito. Come i fumi di satana sono stati scoperti in Vaticano (da un Papa) e non essendo state risolte le cause, oggi l’incendio non è più controllabile, così i fumi del tradimento e della incapacità continuano a trionfare nel nostro paese da tempo, e si apprestano a produrre anch’essi una catastrofe”

PEZZO GROSSO


L’analogia può andare oltre, Sig. Pezzo Grosso. La lotta ideologica che sta devastando la Chiesa è la medesima che, da decenni, sta facendo morire questo sventurato paese. Non quella chiara e inequivocabile di una volta ma questa, strisciante e subdola, nascosta e “anonima”. “… Di fronte a tanta vergogna un solo rimedio penso ci possa essere, che i capaci e gli onesti scendano alla tutela dello Stato….(Cicerone, Processo contro Verre). Ma i capaci e gli onesti, che pure ci sono, anche nella pubblica amministrazione, sono costretti, loro malgrado, ad un anonimato imposto da chi, incapace e immeritevole, senza rischiare nulla, anzi, impunemente auto deresponsabilizzandosi, si prende la scena per vanagloria, nella millanteria più licenziosa, solo con l’unico scopo di farsi una montagna di “cavoli” propri. Sono personaggi noti, è vero, ma inutili anzi, nocivi, devastanti. Lei invece, Sig. Pezzo Grosso, è un anonimo volontario, pertanto non giustificato, anche perché non rischia “niente” di quello che conta veramente agli occhi di Dio. Quello che lei scrive conta zero, mille anonimi contano zero perché quando diciamo "SI, SI, NO, NO…", per essere coraggio e quindi dare suoi frutti, dobbiamo metterci la faccia, anche per omaggio a Colui che ci ha messo pure la vita.

Claudio Gazzoli – Monterubbiano


.... ovviamente nessun commento o risposta... , gli anonimi non esistono !

lunedì 30 aprile 2018

PANE con Lievito Madre… secondo le mie esperienze “sofferte”




PANE con Lievito Madresecondo le mie esperienze “sofferte” (con l’assistenza “speciale” di nonna Lisa)

1.  Rinfresco del lievito madre
Il giorno precedente alla panificazione, verso le 21.00, prelevo (dal contenitore in frigorifero) il lievito madre in quantità pari a 75 gr ogni 500 gr di farina finale utilizzata (quella utilizzata la mattina in cui preparo l’impasto finale). Il mio è un lievito di consistenza abbastanza soffice, rinfrescato ogni 4/5 giorni, con l’equivalente in peso di farina e il 50 % di acqua.
Lo rinfresco con acqua minerale (non deve avere cloro) riscaldata a circa 30 °C e farina, in quantità circa corrispondente al lievito, poi impasto fino ad ottenere una “biga” di consistenza morbida. Occorre regolarsi per le proporzioni di acqua e farina… io, per un impasto finale del peso di circa 4 kg (circa 2 kg di farina finale), uso circa 300 gr di lievito madre, 150 gr di acqua e circa 300 gr di farina.
Metto l’impasto in forma di palla in un contenitore di plastica, coperto da un canovaccio inumidito. Lo lascio tutta la notte.
3.  Preparazione dell’impasto finale
1.   La mattina prelevo l’impasto e lo verso nella planetaria (o in una ciotola + grande x chi lo fa a mano). Aggiungo acqua minerale, riscaldata a circa 30°C. Per il quantitativo di acqua occorre regolarsi.. nella mia preparazione ne uso circa 1 litro. Si può dire circa 500 gr di acqua ogni kg di farina finale.
2.   Preparo la farina finale. Qui ognuno può provare vari tipi di farina.. io la prendo direttamente al molino. Uso farina biologica - BASE w 200 -e la mischio in questa proporzione: 80 % di farina tipo 0,  20 % di farina di grani antichi (Iervicella, Solina…) macinata a pietra. A volte aggiungo anche farina integrale ma in quantità non superiore al 10% perché non avendo glutine mi sballa la lievitazione.. Nella mia preparazione la farina finale è circa 2 Kg.
3.   Sciolgo, nella ciotola o nella planetaria, l’impasto nell’acqua e, prima di aggiungere la farina, metto circa 1/3 di bicchiere d’acqua dove ho disciolto: un cucchiaino di malto d’orzo (ha una consistenza simile al miele, si può acquistare nei negozi di prodotti biologici…), un cucchiaino di miele, circa 1 gr. Ovviamente queste sono le mie proporzioni che vanno poi adattate.  
4.   Comincio a mettere la farina, poco per volta, setacciandola, impasto con un forchettone nel contenitore, aggiungo la soluzione di acqua e miele, poi metto a lavorare nella planetaria alla minima velocità. Aggiusto di farina o di acqua.. l’impasto non deve essere troppo duro ma neanche troppo molle. Faccio andare la planetaria x circa 5 min poi aggiungo il sale, precedentemente sciolto in 1/3 di bicchiere d’acqua tiepida (circa 5 gr ogni kg di farina… la quantità può variare.. il pane pugliese ne ha circa il doppio). Termino la lavorazione nella planetaria per altri 8/10 min circa (non di continuo.. lo faccio riposare, alcuni minuti, 2 volte).
4.  Lievitazione finale
1.      PRIMA LIEVITAZIONE: verso l’impasto dalla planetaria sulla tavola, lo lavoro circa 1 min, lo metto in una ciotola, coperto da un canovaccio inumidito, per un TEMPO dipendente dalla temperatura ambiente. Il tempo di lievitazione è molto importante per evitare sotto o sopra lievitazioni. Provo a proporre un grafico, che deriva dalla mia esperienza, da una farina w200, da un lievito madre rinfrescato come sopra:

  
2.      SECONDA LIEVITAZIONE: prelevo l’impasto, lo verso sulla tavola e lo suddivido in 2, 3 o 4 pezzature, a seconda della grandezza delle pagnotte finali che voglio ottenere (il peso della pagnotta dopo la cottura è circa il 15% in meno della pasta iniziale).
Lavoro ogni pagnotta in questo modo: la stendo con le mani fino ad ottenere una “pizza” circolare o rettangolare di 30 cm, faccio le PIEGHE, ripeto questo procedimento almeno 2 volte. Ho notato che le PIEGHE sono molto importanti per dare consistenza alla pagnotta, prima di metterla in forno. Credo che aumentino la struttura del glutine. Faccio le pieghe in questo modo… ma ci sono varie scuole di pensiero… Lascio riposare le pezzature per circa 10 minuti.

Poi faccio le pagnotte finali a seconda della forma del pane che voglio ottenere: per il filoncino classico allargo la massa, come sopra, fino ad una lunghezza di 25/30 cm, lo ripiego nel senso della lunghezza 3 o 4 volte, chiudo bene le estremità (non deve uscire il gas della fermentazione).  Metto a LIEVITARE sulla tavola coprendo le pezzature con un canovaccio inumidito e una coperta di pile ripiegata, per un tempo di circa 2 ore. Provo a proporre un grafico anche per la seconda lievitazione, come sopra spiegato. Prima di metterle in forno, faccio un taglio centrale in ognuna delle pagnotte lievitate.


5.  Cottura del pane
E’ ovvio che questo lavoro viene esaltato dal forno a legna.. però viene bene anche nel forno di casa. La temperatura iniziale non deve essere inferiore a 240°C e comunque occorre fare esperienza e, probabilmente, farne bruciare qualcuna o averle bianche… Le lascio nel forno circa 1 ora. Quando le togo dal forno, per non raffreddarle troppo bruscamente, le copro, per la prima mezzora, con un panno di lana (non pile).                                                                        
Buon divertimento           Claudio







venerdì 20 aprile 2018

IN CHIESA SI VA PER PREGARE



Sabato scorso ho assistito, alla messa delle 10 in una nota Basilica della mia regione. Il celebrante, al termine della messa, ha voluto ricordare che "il Papa dice che la chiesa è luogo sacro dove si prega". E’ scontato che il messaggio era per coloro che entrano in chiesa come turisti con tanto di riprese e foto smart. Ma perché c'è bisogno di citare il Papa ? (..tuttavia per questo bisogno ho qualche sospetto....) Non basta l'autorità del religioso celebrante ? Sarebbe come se il titolare di un ristorante avesse bisogno del parere del presidente della sua associazione per ricordare che il ristorante è fatto per mangiare.. Ma, a parte simili scontate considerazioni, mi è venuto di pensare a quali e quante profanazioni vengono compiute sotto gli occhi dei Vescovi... Fin qui tutto nella “norma”.. Se non fosse che, più tardi, a casa, mi sono imbattuto in questo video:

mercoledì 4 aprile 2018

ESSERE "GRANDI" PER IL VESCOVO DI ROMA



niente è buono o cattivo in sé, ma nel nostro pensiero..  (Amleto: atto II, scena II)

Vorrei ritornare sull’argomento della “celebrazione” di certi personaggi, abortisti, fatta dagli alti gradi del Vaticano, sia perché, profondamente indignato come cattolico, non riesco a capacitarmi, sia perché credo che tale atteggiamento riveli, più di altre clamorose esternazioni, la linea della chiesa attuale e la rivoluzione in atto.
Appartengo alla generazione dell’immediato dopo guerra degli anni ’50. Sono di un paese come tanti di quell’Italia stremata, impoverita, umiliata, raggirata ma piena di speranza. Solo che la speranza non si mangia, non c’era da arrivare a fine mese ma a fine giornata. Non era ancora arrivata la televisione, noi bambini avevamo gli stessi giochi mirabilmente rappresentati nei mosaici di Piazza Armerina, sporchi e malconci con le scarpe rotte e gli inserti metallici sotto le suole, sfiniti dalle scorribande ma liberi, felici, solari. La libertà controllata era una conseguenza, non una scelta. Nessuna delle nostre madri aveva un impiego fisso ma avevano da impiegare il tempo, senza riposo, per necessità, per consuetudine familiare, per provvedere alla casa, alla cena, alla vita, alla dignitosa celebrazione delle feste religiose, nel cibo e nell’abbigliamento, con il sole, la pioggia, il freddo dei geloni, senza sapere che cosa fosse la malattia, anche quando c’era. Una delle occupazioni principali delle donne di paese, prima della tecnologia domestica globale, era lavare i panni al “lavatoio pubblico”. Se ne vedono gli effetti sulle mani di mia madre e delle donne della sua età, quelle che non hanno avuto la fortuna di impiegarsi in parlamento, deformate dall’artrosi ma senza lamenti o rimpianti. I figli, a volte numerosi, partoriti a casa, erano un dono di Dio, da far crescere, senza la pedagogia ideologica allora nascente, ma con la cultura della tradizione, la pratica quotidiana, la divisione chiara tra buono e cattivo, la distinzione netta tra generi, di cui, ovviamente, nessuno metteva in dubbio la inviolabile complementarietà, prima dello sfacelo. Finalmente in Chiesa, decorose, a fare dono a Dio del loro sacrificio. Hanno contribuito in modo oscuro, ma determinante, alla rinascita del Paese.
Poi, negli anni in cui TUTTO doveva essere cambiato (compresa la Chiesa), di cui ricorre una penosa e fasulla celebrazione, hanno continuato la vita di sempre, con profonda dignità. Non se ne sono andate in giro a praticare aborti con pompe da bicicletta e, poi, a riderci su o, infatuate, a manifestare con il gesto del “triangolo fatto con le dita, unendo le punte dei pollici e quelle degli indici…a formare, in mezzo, il vuoto, il varco di libertà attraverso cui passò una rivoluzione..”.. E quale rivoluzione, quale libertà! la libertà della perdita di un’identità, di un compito fondamentale, la emancipazione per totale imitazione del maschio, la confusione dei ruoli, il centralismo del piacere pilotato dalla sessualità, l’esibizionismo triviale e scandaloso, la seduzione letale del potere, la totale delegittimazione della famiglia quale cellula fondante della nostra cultura, fin dall’epoca preromana, ma è solo una piccola parte…
Se “quella” è una grande italiana che cosa dire di queste umili donne? Ma poi, per essere grandi agli occhi di Dio, perché a noi cattolici solo quello interessa, non bisogna farsi piccoli?  "Grande" forse per la commissione svedese, ma il Papa non è la guida dell’intellighenzia che governa il mondo! o SI! A sentire certe glorificazioni, che, essendo reiterate, non possono essere frutto del caso, senza ripensamenti, correzioni o compensazioni, viene da percepire i “miasmi dell’Inferno” che hanno impregnato i luoghi del potere dei rampolli di quella rivoluzione che nulla, ma proprio nulla, ha a che vedere con il messaggio Evangelico.
Claudio Gazzoli - Monterubbiano (FM)

lettera aperta a Padre Raniero Cantalamessa


Può essere utile per capire meglio il clima che stiamo vivendo nella Chiesa. Mia moglie ed io avevamo deciso di partecipare, la settimana successiva alla Pasqua, a quattro giorni di catechesi, tenuti da Padre Raniero Cantalamessa, sul seguente tema: “Cristo, nostra Pasqua è stato Immolato. Il Mistero Pasquale meditato e vissuto”. Avevamo la speranza, di incontrare, di chiarire, di comunicare, di illuminare… Non siamo riusciti a parlare con il relatore, nessuno dei presenti ci è riuscito, si è tolto, sistematicamente, dalla nostra premura, con sperimentata abilità, disponendo attorno alla propria persona una barriera altera e invalicabile. Il tema è stato trattato, come è ovvio, dal predicatore della Casa Pontificia, in modo elevato. L’ultimo giorno l’argomento è sembrato fuori tema… poi abbiamo capito: la “giustificazione per fede”, della lettera ai Romani, ha introdotto il tema della "giustificazione" di Lutero, in occasione dei 500 anni, e tutta la serie delle attuali “giustificazioni” della Chiesa.


«Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11, 25-27)

Chi sarà, con P. Cantalamessa, il religioso prostrato, "benedetto" al convegno evangelico ?
Reverendo padre Raniero Cantalamessa,
avrei voluto proporle, se solo me lo avesse consentito, queste brevi riflessioni….
Sono solo uno che cerca di percorrere la strada, non facile, del discernimento… è per questo che mi trovo qui. Ma sento di aver fatto un errore, provocato dal potere enorme che la televisione ha nella nostra vita, anche quando, come nel mio caso, si fa del tutto per esserne fuori. Non abbiamo la percezione del potere della dissimulazione mediatica che ci costringe a vivere nel mondo ingannevole e affabulatorio, conforme allo “spirito del tempo”. Ho seguito sempre, negli ultimi 4 anni di messa in onda, anche ricorrendo alla registrazione, le sue catechesi del sabato pomeriggio. Così siamo venuti, mia moglie ed io, con fervore, a questi incontri di meditazione. Ho voluto partecipare, soprattutto, perché mi permettevo di considerarmi un suo amico, come faceva supporre la sua costante esclamazione “carissimi amici” e il suo sorriso che io, spettatore ingenuo, ritenevo rivolto a me stesso.
Sono venuto, pertanto, non per il “personaggio”, ma per la persona che supponevo di incontrare. Non l’avrei molestata con domande capziose, con l’unico scopo di assecondare la mia patetica vanagloria. Avrei solo cercato un contatto, uno sguardo, una presenza che potesse condurre nel profondo, oltre il compiacimento della mente, persino oltre il cuore, quelle riflessioni sul fine ultimo ed unico del nostro essere. Così non è stato. Beninteso, il tema è stato da lei trattato, come ovviamente ci si aspettava, in modo altissimo, semplice ed erudito. Ci ha accompagnato, malgrado le sue personali difficoltà, in un percorso avvincente e sommamente rigoroso, attraverso il Mistero fondamentale della Passione. Ha condotto con mano la nostra mente a percepire una parte minima, ma grande, di quello che lei conosce. Ci ha fatto ascoltare, per quello che possiamo con i nostri sensi, l’eco lontana, lieve, impercettibile del soffio dello Spirito. Solo su alcuni punti, che non riguardano direttamente la Dottrina della Chiesa, ma più la sua Politica, soprattutto con riferimento alla ricorrenza dei 500 anni, dove peraltro è lecito avere le proprie opinioni, mi sono potuto concedere di non essere d’accordo. Ciononostante mi permetto di dirle che mi aspettavo di più. Ma non c’è stato il tempo né l’opportunità.
Mi ha sempre commosso Gesù che, invece di affrettarsi a fuggire da chi cerca di lapidarlo, si sofferma con un cieco, vicino alla piscina di Siloe, per ridare a lui la luce. È quella Luce che noi vorremmo guardare, inconfondibile, tra mille altre luci che il mondo ogni giorno accende in un bagliore artificiale che deve rendere tutto uguale. Forse se lei avesse dato meno spazio al “personaggio”, senza consentire ad alcuno di farle capire che avrebbe voluto solo avvicinarla come persona. Forse se lei non avesse dovuto affrettarsi ad uscire dalla sala per raggiungere, da solo, l’ascensore. Forse se non avesse dovuto finire in fretta il suo pasto per lasciare la sala mensa e raggiungere il suo telefono, nascosto ma rumoroso, avrebbe avuto più tempo per guardarsi intorno, incontrare, ascoltare, senza parlare, confrontarsi con persone in ricerca, con tutte le suore che si sono prodigate, in questi tre giorni, per rendere gioiosa, come è giusto che sia, l’esposizione della Verità, che hanno dovuto accettare, con rispetto, l’umiliazione per un programma improvvisamente cambiato, che hanno messo grande cura e decoro in ogni più piccola attività, che hanno accolto ogni goccia dell’acqua che lei ha dispensato. Proprio cento anni fa’, a tre piccoli pastori, cattolici romani, che di decoroso indossavano solo l’umiltà, che conoscevano solo qualche decina di parole del loro dialetto, senza saperle né leggere né scrivere, è stato fatto il grandioso dono di guardare quello che tutte le intelligenze terrene unite non potrebbero neanche lontanamente immaginare. Questa è la vera, grande ricorrenza, dove non c’è da dimostrare niente, semmai da guardare più a fondo, dove non servono sofisticati compromessi per far quadrare tesi indimostrabili.
Inoltre se avesse guardato con più attenzione avrebbe potuto notare, tra le persone, “disperse nei pensieri del loro cuore”, me compreso, (e del loro smartphone), una suora minuta il cui nome, Leonia, non corrisponde certo, ma solo apparentemente, al suo temperamento e, tuttavia, affabile e premurosa, con una voce sottile perché il cuore non proclama. Avrebbe potuto ascoltare, senza parlare, i suoi racconti, le sue semplici esortazioni, la sua genuina saggezza che le viene da una vita passata a contatto con gli ultimi, quelli veri, quelli che siamo soliti non solo ignorare ma anche giudicare. Avrebbe potuto osservare la luce particolare che emana dal suo sguardo, dai suoi occhi, la pacatezza unita alla serenità dello spirito, il vestito smagliante dell’umiltà, l’ascolto attento, la premura nel dispensare consigli semplici ma pieni di Parola. Avrebbe potuto ammirare la sua fede antica, senza compromessi, come quella delle donne anziane di paese della mia infanzia, come quella delle donne che hanno condiviso la Passione, non la sua fede razionale, ma tutta la sua persona che la giustifica davanti a Dio.
È un vero peccato (ma è solo un modo di dire...) che lei non abbia avuto questa opportunità, perché dietro allo sguardo timido e discreto di Suor Leonia, tra le pieghe dell’abito, che poi è anche il suo, tra le parole lievi pronunciate nella sua originale cadenza, avrebbe potuto scorgere, con gli occhi del cuore, questa volta oltre l’eco lontana dello Spirito, Gesù in persona.
Claudio Gazzoli - Monterubbiano (FM)

martedì 10 ottobre 2017

UN RICORDO del PROF. CARLO FERRARI del POLITECNICO DI TORINO




Dopo tanti anni vorrei ricordare Carlo Ferrari, professore universitario del Politecnico di Torino. Ingegnere e ricercatore di fama mondiale, membro di varie Accademie internazionali, grande esempio, di sapienza e umiltà insieme ma anche abnegazione, consapevolezza del proprio ruolo, carisma. Se solo potessimo tentare di imitarlo....


Professionalmente sono in attività da quasi 40 anni, cosciente della desolazione culturale, morale, sociale nella quale riversa, inconsapevole e ammaliato, questo sfortunato paese. Uno degli slogan più noti, “il futuro è già qui”, descrive in modo esemplare tale condizione. La frenesia di proiettarsi nel futuro destituendo il presente e cancellando il passato, apparentemente infantile, irresponsabile, immorale ma invece strumentale e faziosa al tempo stesso, rientra in un disegno, in gran parte riuscito, che, paradossalmente viene da lontano, di eliminazione della memoria, quale fonte della identità individuale, che si vuole, forzatamente, omologare. Una delle conseguenze, ma anche delle cause, di tale contesto è la estrema miseria (è ovvio solo in senso figurato) di chi dovrebbe scegliere, organizzare, controllare, dirigere, a partire dai più alti gradi. In questo contesto le persone veramente competenti, oneste, idonee, che pure ci sono, devono nascondersi per non provocare la gelosia e la protervia del potere, per non essere estromessi come gli intrusi di un alveare.
Credo invece che l’unico modo per tentare di risalire la china sia guardare a quanto di buono c’è nel nostro passato, renderlo proficuo. Nel mio passato il Prof Carlo Ferrari ha il rilievo di un gigante.
Nel 72/73 l’ho avuto nel corso di Meccanica applicata alle Macchine. Aveva già 70 anni, era il suo ultimo anno prima del pensionamento. Conservo gelosamente il quaderno di appunti e ho un ricordo vivo delle sue lezioni. Fin dalla prima lezione, ho capito che l’uomo che avevo davanti, certamente di età avanzata, minuto di corporatura, leggermente curvo, manifestamente schivo ma vivace, acuto, capace di riempire di formule tutte le sei lavagne disponibili, in modo ordinato, preciso, con quella chiarezza che può avere solo chi possiede in pieno la disciplina, non era un normale professore. Aveva una rara autorevolezza, una passione per la materia che traspariva in ogni suo gesto o espressione, un entusiasmo formativo per l’insegnamento, qualità che si possono certamente sintetizzare nella parola “carisma”.
Ricordo in particolare le lezioni dedicate al moto dei fluidi con lo sviluppo delle equazioni di Navier-Stokes, senza l’uso sintetico di operatori differenziali, ma con tutti i loro numerosi termini in bella evidenza. Grande teorico della meccanica e dell’aerodinamica, membro di diverse accademie internazionali, ma anche grande ingegnere, usava quella rappresentazione analitica perché aveva davanti futuri ingegneri ai quali interessa il risultato concreto delle infinite applicazioni di tali equazioni. Così il passaggio dal generale al particolare, come la teoria elementare della lubrificazione, è la più alta lezione di sintesi, di semplificazione della complessità, di percezione di quello che conta veramente, a scapito del superfluo, che abbia mai avuto la fortuna di ricevere. Seguire tali lezioni non ha avuto solo una decisiva importanza nella formazione ingegneristica, ma ha dato un notevole contributo sulla strada tortuosa verso la consapevolezza. Non la disciplina fredda del “calcola o crepa” inciso su un banco dell’aula 1, ma l’ingegneria quale modello di conoscenza, metodo di ricerca della migliore soluzione.
Ricordo un convegno, organizzato in quel periodo presso l’Istituto di Aeronautica dove, alla presenza di numerosi ricercatori e luminari nazionali e internazionali, tenne una lezione su argomenti di aerodinamica transonica. La sua capacità espositiva, unita alla sua vivacità intellettuale, sapevano rendere avvincente quella materia anche per il piccolo gruppo di noi studenti, non in grado di seguirne i passaggi matematici, riuscivano a comunicare il fascino e la bellezza della complessità della natura.

Nonostante quanto già esposto, non sono questi i motivi che mi inducono a ricordare, per quanto nelle mie possibilità, la sua statura. Quello che fa la differenza, sono le modalità, credo uniche, che aveva voluto adottare per lo svolgimento dell’esame da parte dei suoi allievi. Egli aveva organizzato, ma si potrebbe dire inventato, chiedendo il supporto dei suoi assistenti, un “esame continuo” fatto di incontri settimanali pomeridiani di un’ora ciascuno, per tutta la durata del corso, presso il suo ufficio, con ciascuno dei circa 60 studenti. Ognuno di quegli incontri, che ho avuto la fortuna di avere con lui, era insieme la classica verifica sugli argomenti svolti a lezione, lo sviluppo di esempi applicativi, la opportunità di trattare nuovi argomenti. Era lui che mi chiedeva di proporre temi che suscitavano la mia curiosità o che facevano parte del mio immaginario di aspirante ingegnere. Così ricordo il suo fervore nel guidarmi ad impostare ed analizzare la dinamica del moto della bicicletta o problemi riguardanti la meccanica del volo spaziale. A volte, uscendo da quegli incontri, quasi per rielaborare i concetti e fissarli nella memoria, attraversavo a piedi il centro storico di Torino per tornare a casa, passando per via Po e proseguendo oltre piazza Vittorio e mi chiedevo come fosse possibile che un uomo così impegnato, così sapiente, volesse passare il suo tempo con uno studente qualsiasi per accompagnarlo nel difficile percorso verso la comprensione della realtà, che è poi anche la comprensione di sé. In un contesto dove lo spazio per gli aspetti interiori, le ansie, le inclinazioni individuali, era certamente piuttosto angusto o inesistente, quel tempo passato a tu per tu con lui, ad assecondare i miei interessi, ad orientare le mie incertezze, mi faceva sentire “importante”, mi ridava un senso di accoglienza, una fiducia nel mio futuro. Un esempio nobile di maieutica applicata all’ingegneria.

Lo scienziato che, con umiltà, si mette al servizio del suo allievo rende possibile la trasmissione del sapere quale fondamento della civiltà. Sono passati più di 40 anni, ma il ricordo non è mai tardivo. Per i grandi uomini “il passato è sempre il presente”. Quanto seminato da lui e da persone speciali come lui ha tenuto vivo il terreno sul quale tentare di “rifondare” il nostro futuro.

Ovunque Lei sia, grazie, Professor Carlo Ferrari.

Claudio Gazzoli


giovedì 5 ottobre 2017

UNA PROPOSTA DI RIFORMA DELLA SCUOLA SECONDARIA DI SECONDO GRADO


L'avevo inoltrata, qualche anno fa', ad un partito candidato per le elezioni politiche... poi sconfitto. E' ancora attuale, visto che nel frattempo, non hanno fatto nulla, anzi...

Nonostante le dichiarazioni ufficiali, a qualunque livello, collocherebbero la scuola Italiana ai primi posti del mondo, vista dall’interno, la realtà è ben diversa. La scuola Italiana non risponde più alle esigenze di un mondo in rapida evoluzione.
La situazione attuale della scuola media superiore si può così riassumere:
Gli alunni hanno sempre ragione e, pertanto, vanno aiutati, accuditi, capiti, giustificati, difesi, soccorsi, perdonati (...e loro lo hanno capito da un pezzo!).
- Gli insegnanti hanno sempre torto e, pertanto, vanno demotivati, ostacolati, desautorati, delegittimati, mortificati.
- Il consiglio di classe è sovrano e, in barba all’art. 34 della Costituzione (“I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”), trasforma, quasi per miracolo, i 5 e i 4 in 6, per buonismo, indulgenza, ideologia o paura dei ricorsi, facendo diventare capaci quelli che non lo sono e meritevoli quelli che non lo meritano.
- Il dirigente scolastico, impegnato com’è a recepire le continue lagnanze di genitori e studenti, sopraffatto dalla paura, non ha il tempo per occuparsi dei contenuti e della organizzazione dell’insegnamento, in definitiva il fine primario della scuola.
- Le strutture e gli strumenti didattici sono ridicoli e obsoleti se confrontati con quelli che le aziende virtuose mettono a disposizione per la formazione dei loro dipendenti.
- L'attività didattica è rivolta e calibrata, in ragione degli argomenti già esposti, verso gli alunni meno "meritevoli" della classe, trascurando l'abilità e la diligenza di tutti gli altri.
- L’insegnamento delle discipline, all’interno del programma ministeriale, a sua volta demarcato dalla “classe di concorso” e insabbiato dal “libro di testo”, viene percepito dagli alunni in modo circoscritto all’ambito della disciplina stessa senza le opportune relazioni, affinità, che rendono il sapere strumento primario di crescita della personalità e di comprensione delle connessioni sempre più complesse della vita reale.
Le mie proposte per una scuola moderna e competitiva sono riassunte nei 10 punti seguenti:
1. Riportare l’insegnante (non il collegio dei docenti o il consiglio di classe) al centro della scuola. Ascoltare le sue esigenze didattiche, comprendere e favorire le sue proposte, attribuirgli compiti di gestione e organizzazione dell'attività didattica.
2. Selezionare insegnanti preparati e motivati non trascurando l’apporto di docenti con grande esperienza dal mondo del lavoro e della ricerca che, soli, possono costituire il necessario collegamento con l’esterno.
3. Procedere ad un metodo sistematico di valutazione in itinere degli insegnanti dove ci siano anche gli apporti degli alunni e, in seconda istanza, dei genitori.
4. Riorganizzare la vita scolastica non più attorno alla classe, ma attorno alla disciplina. Si può pensare ad una via intermedia tra l’attuale organizzazione e quella dell’università. La classe che si forma al primo anno e dura 5 anni è una entità chiusa nel tempo e nello spazio che non rappresenta più la realtà del mondo del lavoro e della società in cui è importante la duttilità dei rapporti, la estrema varietà delle relazioni tra le persone, anche con altri soggetti, imprese, amministrazioni, università, il tutto in una “aula” ormai globale. E' un mondo chiuso dove si instaurano rapporti stagnanti all'interno di sottogruppi, tensioni irrisolte, strategie di difesa non costruttive. Si può pensare ad una organizzazione dove ci siano lezioni seguite da tutti gli alunni dello stesso anno di corso e gruppi di lavoro costituiti con modalità variabili in funzione di esercitazioni, progetti, chiarimenti, approfondimenti, interessi individuali. Va naturalmente ripensata la stessa architettura scolastica con una nuova organizzazione degli spazi che dovranno essere funzionali alle attività e non il contrario, come avviene oggi.
5. Responsabilizzare gli alunni dando a loro non solo l’impressione, ma l’evidenza che il proprio futuro è nelle mani di ciascuno, che domani si raccoglierà quello che si semina oggi in termini di impegno, interesse, motivazione. Nella società c’è un posto per ognuna delle infinite inclinazioni della persona ma bisogna guadagnarselo. Va da sé che lo Stato, non più da vedere come una controparte, deve riguadagnare tutti gli elementi di credibilità perduti per dare ai ragazzi sicurezza del futuro.
6. Eliminazione del libro di testo. Questo totem sacro e inviolabile, oggetto di sedute interminabili quanto inutili, ha fatto il suo tempo. Si vedono alunni di ogni età trasportare carrelli con 15 kg di libri! Non è la quantità che conta: "...la mente non ha bisogno, come un vaso, di essere riempita, ma piuttosto, come legna, di una scintilla che l'accenda e vi infonda l'impulso della ricerca e un amore ardente per la verità" (Plutarco, L'arte di saper ascoltare). Spetta all’insegnante (come sancisce l’art. 33 della Costituzione) e non al ministero il controllo del rigore didattico degli apporti che la rete o altri strumenti oggi mettono a disposizione in ogni disciplina.
7. Eliminazione del voto di consiglio nelle valutazioni finali. I voti attribuiti agli alunni, nel corso dei cinque o più anni di frequenza, devono rimanere, senza artifici, nel curriculum finale degli stessi.
8. La promozione alla classe successiva avviene automaticamente al superamento di un target predeterminato nel cui computo concorrono i profitti conseguiti nelle varie discipline con pesi diversi in ragione della specializzazione (è probabile che un’azienda che voglia assumere un diplomato in elettronica sia più interessata al profitto in materie attinenti con essa che non a quello acquisito in storia o in educazione fisica). Le valutazioni dei singoli insegnanti, che confluiscono poi nella valutazione finale, devono rispondere a criteri di oggettività e imparzialità validi per gli insegnanti della stessa disciplina, per i diversi corsi e annualità. Gli insegnanti devono determinare insieme tali criteri in modo da rendere confrontabili le valutazioni. Occorre un sistematico ricorso a metodi statistici che garantiscano il costante mantenimento dei criteri stabiliti.
9. La carica di dirigente scolastico deve essere elettiva, da ripetersi ogni 5 anni. I candidati, scelti tra gli insegnanti dello stesso istituto, dovranno avere le necessarie competenze, certificate da un Organismo indipendente. Alle votazioni parteciperanno insegnanti, studenti e genitori con modalità tali da equilibrare il peso delle varie componenti.
10. L’esame finale, al quale andrebbe tolta la incongrua e ridicola denominazione di “esame di maturità” consisterà in un colloquio, su argomenti non specifici (quelli sono già valutati a sufficienza nel corso dei 5 anni di studi e faranno parte della scheda finale di valutazione), tenderà a valutare le capacità di sintesi, di argomentare le proprie opinioni, di rapportarsi con la complessità.