Dopo tanti anni vorrei ricordare Carlo Ferrari, professore universitario del Politecnico di Torino. Ingegnere e ricercatore di fama mondiale, membro di varie Accademie internazionali, grande esempio, di sapienza e umiltà insieme ma anche abnegazione, consapevolezza del proprio ruolo, carisma. Se solo potessimo tentare di imitarlo....
Professionalmente sono in attività da quasi 40 anni, cosciente della desolazione culturale, morale, sociale nella quale riversa, inconsapevole e ammaliato, questo sfortunato paese. Uno degli slogan più noti, “il futuro è già qui”, descrive in modo esemplare tale condizione. La frenesia di proiettarsi nel futuro destituendo il presente e cancellando il passato, apparentemente infantile, irresponsabile, immorale ma invece strumentale e faziosa al tempo stesso, rientra in un disegno, in gran parte riuscito, che, paradossalmente viene da lontano, di eliminazione della memoria, quale fonte della identità individuale, che si vuole, forzatamente, omologare. Una delle conseguenze, ma anche delle cause, di tale contesto è la estrema miseria (è ovvio solo in senso figurato) di chi dovrebbe scegliere, organizzare, controllare, dirigere, a partire dai più alti gradi. In questo contesto le persone veramente competenti, oneste, idonee, che pure ci sono, devono nascondersi per non provocare la gelosia e la protervia del potere, per non essere estromessi come gli intrusi di un alveare.
Credo invece che l’unico modo per tentare di risalire la china sia guardare a quanto di buono c’è nel nostro passato, renderlo proficuo. Nel mio passato il Prof Carlo Ferrari ha il rilievo di un gigante.
Nel 72/73 l’ho avuto nel corso di Meccanica applicata alle Macchine. Aveva già 70 anni, era il suo ultimo anno prima del pensionamento. Conservo gelosamente il quaderno di appunti e ho un ricordo vivo delle sue lezioni. Fin dalla prima lezione, ho capito che l’uomo che avevo davanti, certamente di età avanzata, minuto di corporatura, leggermente curvo, manifestamente schivo ma vivace, acuto, capace di riempire di formule tutte le sei lavagne disponibili, in modo ordinato, preciso, con quella chiarezza che può avere solo chi possiede in pieno la disciplina, non era un normale professore. Aveva una rara autorevolezza, una passione per la materia che traspariva in ogni suo gesto o espressione, un entusiasmo formativo per l’insegnamento, qualità che si possono certamente sintetizzare nella parola “carisma”.
Ricordo in particolare le lezioni dedicate al moto dei fluidi con lo sviluppo delle equazioni di Navier-Stokes, senza l’uso sintetico di operatori differenziali, ma con tutti i loro numerosi termini in bella evidenza. Grande teorico della meccanica e dell’aerodinamica, membro di diverse accademie internazionali, ma anche grande ingegnere, usava quella rappresentazione analitica perché aveva davanti futuri ingegneri ai quali interessa il risultato concreto delle infinite applicazioni di tali equazioni. Così il passaggio dal generale al particolare, come la teoria elementare della lubrificazione, è la più alta lezione di sintesi, di semplificazione della complessità, di percezione di quello che conta veramente, a scapito del superfluo, che abbia mai avuto la fortuna di ricevere. Seguire tali lezioni non ha avuto solo una decisiva importanza nella formazione ingegneristica, ma ha dato un notevole contributo sulla strada tortuosa verso la consapevolezza. Non la disciplina fredda del “calcola o crepa” inciso su un banco dell’aula 1, ma l’ingegneria quale modello di conoscenza, metodo di ricerca della migliore soluzione.
Ricordo un convegno, organizzato in quel periodo presso l’Istituto di Aeronautica dove, alla presenza di numerosi ricercatori e luminari nazionali e internazionali, tenne una lezione su argomenti di aerodinamica transonica. La sua capacità espositiva, unita alla sua vivacità intellettuale, sapevano rendere avvincente quella materia anche per il piccolo gruppo di noi studenti, non in grado di seguirne i passaggi matematici, riuscivano a comunicare il fascino e la bellezza della complessità della natura.
Credo invece che l’unico modo per tentare di risalire la china sia guardare a quanto di buono c’è nel nostro passato, renderlo proficuo. Nel mio passato il Prof Carlo Ferrari ha il rilievo di un gigante.
Nel 72/73 l’ho avuto nel corso di Meccanica applicata alle Macchine. Aveva già 70 anni, era il suo ultimo anno prima del pensionamento. Conservo gelosamente il quaderno di appunti e ho un ricordo vivo delle sue lezioni. Fin dalla prima lezione, ho capito che l’uomo che avevo davanti, certamente di età avanzata, minuto di corporatura, leggermente curvo, manifestamente schivo ma vivace, acuto, capace di riempire di formule tutte le sei lavagne disponibili, in modo ordinato, preciso, con quella chiarezza che può avere solo chi possiede in pieno la disciplina, non era un normale professore. Aveva una rara autorevolezza, una passione per la materia che traspariva in ogni suo gesto o espressione, un entusiasmo formativo per l’insegnamento, qualità che si possono certamente sintetizzare nella parola “carisma”.
Ricordo in particolare le lezioni dedicate al moto dei fluidi con lo sviluppo delle equazioni di Navier-Stokes, senza l’uso sintetico di operatori differenziali, ma con tutti i loro numerosi termini in bella evidenza. Grande teorico della meccanica e dell’aerodinamica, membro di diverse accademie internazionali, ma anche grande ingegnere, usava quella rappresentazione analitica perché aveva davanti futuri ingegneri ai quali interessa il risultato concreto delle infinite applicazioni di tali equazioni. Così il passaggio dal generale al particolare, come la teoria elementare della lubrificazione, è la più alta lezione di sintesi, di semplificazione della complessità, di percezione di quello che conta veramente, a scapito del superfluo, che abbia mai avuto la fortuna di ricevere. Seguire tali lezioni non ha avuto solo una decisiva importanza nella formazione ingegneristica, ma ha dato un notevole contributo sulla strada tortuosa verso la consapevolezza. Non la disciplina fredda del “calcola o crepa” inciso su un banco dell’aula 1, ma l’ingegneria quale modello di conoscenza, metodo di ricerca della migliore soluzione.
Ricordo un convegno, organizzato in quel periodo presso l’Istituto di Aeronautica dove, alla presenza di numerosi ricercatori e luminari nazionali e internazionali, tenne una lezione su argomenti di aerodinamica transonica. La sua capacità espositiva, unita alla sua vivacità intellettuale, sapevano rendere avvincente quella materia anche per il piccolo gruppo di noi studenti, non in grado di seguirne i passaggi matematici, riuscivano a comunicare il fascino e la bellezza della complessità della natura.
Nonostante quanto già esposto, non sono questi i motivi che mi inducono a ricordare, per quanto nelle mie possibilità, la sua statura. Quello che fa la differenza, sono le modalità, credo uniche, che aveva voluto adottare per lo svolgimento dell’esame da parte dei suoi allievi. Egli aveva organizzato, ma si potrebbe dire inventato, chiedendo il supporto dei suoi assistenti, un “esame continuo” fatto di incontri settimanali pomeridiani di un’ora ciascuno, per tutta la durata del corso, presso il suo ufficio, con ciascuno dei circa 60 studenti. Ognuno di quegli incontri, che ho avuto la fortuna di avere con lui, era insieme la classica verifica sugli argomenti svolti a lezione, lo sviluppo di esempi applicativi, la opportunità di trattare nuovi argomenti. Era lui che mi chiedeva di proporre temi che suscitavano la mia curiosità o che facevano parte del mio immaginario di aspirante ingegnere. Così ricordo il suo fervore nel guidarmi ad impostare ed analizzare la dinamica del moto della bicicletta o problemi riguardanti la meccanica del volo spaziale. A volte, uscendo da quegli incontri, quasi per rielaborare i concetti e fissarli nella memoria, attraversavo a piedi il centro storico di Torino per tornare a casa, passando per via Po e proseguendo oltre piazza Vittorio e mi chiedevo come fosse possibile che un uomo così impegnato, così sapiente, volesse passare il suo tempo con uno studente qualsiasi per accompagnarlo nel difficile percorso verso la comprensione della realtà, che è poi anche la comprensione di sé. In un contesto dove lo spazio per gli aspetti interiori, le ansie, le inclinazioni individuali, era certamente piuttosto angusto o inesistente, quel tempo passato a tu per tu con lui, ad assecondare i miei interessi, ad orientare le mie incertezze, mi faceva sentire “importante”, mi ridava un senso di accoglienza, una fiducia nel mio futuro. Un esempio nobile di maieutica applicata all’ingegneria.
Lo scienziato che, con umiltà, si mette al servizio del suo allievo rende possibile la trasmissione del sapere quale fondamento della civiltà. Sono passati più di 40 anni, ma il ricordo non è mai tardivo. Per i grandi uomini “il passato è sempre il presente”. Quanto seminato da lui e da persone speciali come lui ha tenuto vivo il terreno sul quale tentare di “rifondare” il nostro futuro.
Ovunque Lei sia, grazie, Professor Carlo Ferrari.
Claudio Gazzoli
Ho partecipato, da studente, al corso di meccanica applicata tenuto dal Prof. Ferrari.
RispondiEliminaUn uomo di altri tempi, che iniziava la lezione sin prima di accedere all'aula.
Il corso era monotematico e quell'anno (non sapevo fosse l'ultimo) trattava gli effetti giroscopici.
Tengo con religioso rispetto gli appunti delle lezioni, su cui ancor oggi "splende" il principio di conservazione dell'energia.
L'impiego dei colloqui settimanali in verita' era applicato dal suo Maestro, Modesto PAnetti, inventore dei "picchiatelli" (aerei da picchiata), inventore della prima automobile aerodinamica: l'Aprilia della Lancia. A quei tempi (me lo raccontava mio padre , suo allievo) il numero degli allievi era sui 30 elementi, ed era possibile effettuare i colloqui settimanali, a cui erano presenti i suoi 3 assistenti: Carlo Ferrari, Placido Cicala, e Castagna.
Quando seguii il corso, 1973, con l'esito positivo dei colloqui era poi possibile passare tranquillamente l'esame.
Erano i tempi dei Capo-Scuola, senza dei quali non esiste Scuola