domenica 20 dicembre 2020

IL NATALE DI NONNA CARLOTTA

 


Ritornavo dalla passeggiata pomeridiana con mio nonno, approfittando del sole di una giornata fredda di dicembre, a ridosso del Natale, lungo la strada di campagna che, costeggiando la chiesa, arrivava fino alla fontana con la vasca e la sponda in pietra inclinata, il lavatoio pubblico dove le donne di questo piccolo sobborgo, a ridosso delle mura del paese, andavano, con il canestro o la tinozza di zinco, a lavare i panni. Come tutte le strade di campagna era di terra battuta da centinaia di anni di carri trainati dai buoi con il carico di fieno, grano, paglia, farina, legna. Al centro vi cresceva l’erba che creava le due corsie per camminare, quando era asciutto e il percorso adatto per non infangarsi, dopo la pioggia. Mio nonno era alto con i capelli bianchi che gli davano un portamento che, unito al suo camminare impettito, lo faceva sembrare austero ma anche più burbero di quanto non fosse. Parlava poco, come tutte le persone anziane di allora, pesando le parole, con quella intonazione malinconica che faceva trasparire una sofferenza celata, un decoro semplice e onesto. Aveva trascorso molti anni della sua vita in America a Filadelfia lavorando in un grande calzaturificio e inviando alla famiglia i soldi per sopravvivere e per far studiare mio zio che, a ridosso della maturità classica, decideva di entrare in seminario per farsi sacerdote. Mi piaceva camminare su quella strada, perché arrivava in piena campagna in mezzo ai campi di grano appena spuntato, con i lunghi filari della vite sostenuta dagli aceri e il silenzio assoluto interrotto solo dallo stridio del falco, che mio nonno prontamente mi indicava. In questa stagione in cui fa già notte nel  pomeriggio, ci andavo da solo, anche se con un certo timore, per vedere la via Lattea e immergermi in quel fiume di stelle affondato in un buio profondo che, nel giro di qualche anno, non avrei più rivisto. Rientrammo da una porta laterale, nella canonica, contigua all’abside del santuario dedicato alla Madonna. All’inizio della scala che portava al piccolo alloggio percepii un lamento che, salendo, diventava più simile ad un pianto. Non avevo mai visto mia nonna piangere. Era nata alla fine dell’ottocento, aveva visto due guerre devastanti, un’epidemia violenta, una vita faticosa attraversata con la dignità solenne delle donne di una volta. Aveva atteso per otto anni il ritorno dell’altro figlio dalla guerra e non avrebbe mai superato il rammarico di non averlo riconosciuto, quando era rimpatriato, uno degli ultimi prigionieri rilasciati. Quelle donne raramente piangevano. Se ne stava accasciata su una sedia e mentre cercavo di capire che cosa fosse accaduto, mi accorsi che sul pavimento di mattoni c’erano due pezzi scuri, con attorno carboni e cenere sparsi, che subito riconobbi come le due parti spaccate del ferro da stiro in ghisa. Adesso, dopo tanti anni, in un mondo completamente cambiato, non si capirebbe perché piangere per un vecchio elettrodomestico, così si chiama ora, rotto. Anzi, sarebbe l’occasione per rifarlo nuovo, supertecnologico, a vapore surriscaldato, magari ordinandolo su internet, farlo arrivare direttamente a casa, dopo aver viaggiato per diecimila miglia da un paese lontano da cui arrivano tutte, ma proprio tutte le cose che ci “contagiano” di felicità... Allora, invece, in pieno medioevo, soprattutto nei nostri paesi e nelle nostre campagne, prima dello tsunami della modernità, un ferro da stiro in ghisa, con il manico di legno e il coperchio per riempirlo di brace, uscito dalla bottega di un artigiano del luogo, con la base fornita da una fonderia poco distante, costituiva un piccolo patrimonio, come la pentola in rame stagnata, la graticola, lo scaldaletto, la lampada ad acetilene, il mortaio, il macinino, il setaccio. Nasceva un rapporto intimo con essi, quasi a prolungamento delle mani e della mente, collaboratori dell’essenziale di una vita fatta solo di bisogni primari e perciò elevati. Lo aveva usato a lungo il giorno prima, per stirare le camice di mio zio, tutte senza colletto, da indossare sotto la tonaca e il collarino, mentre teneva il camino acceso, approfittando del fuoco per cuocere le erbe per la cena e poi conservando l’acqua da tenere in caldo per riempire le bottiglie di ottone, con le quali scaldarsi i piedi nel letto. Quello stesso pomeriggio avevo aiutato mio zio, in chiesa, a sistemare il presepio, dopo aver raccolto il muschio più fresco e avermi fatto scegliere il bambinello per la notte di Natale. Erano statue giganti, rispetto alle mie, alcune in carta pesta, dai lineamenti delicati, lo sguardo mite e adorante. Era un Natale speciale perché le pareti interne, il soffitto e i mosaici dorati, erano stati fatti ripulire da mio zio e il santuario appariva risplendente, in piena armonia con la bellissima statua bianca della Madonna adornata di una corona d’oro. Ero felice anche perché mia nonna avrebbe preparato le frittelle con lo strutto di cui andavo matto. Ma adesso non sapevo che cosa dire a lei, affranta, che si era ancora di più abbattuta quando mio nonno le disse che lo avrebbe ricomprato al mercato di un paese lì vicino. Non si dava pace per il fatto che le fosse sfuggito senza riuscire a riprenderlo. Ma non aveva il tempo per continuare ad affliggersi perché quel pomeriggio doveva preparare le ostie, con lo stampo arroventato e la pastella di acqua e farina. Mi piaceva aiutarla a staccarle mentre mi gustavo gli scarti. Non era stata una serata come le altre perché mia nonna non aveva superato lo sconforto e, dopo la cena frugale e le preghiere recitate da mio zio, davanti al caminetto, mi aveva preparato per andare a dormire. Il mio letto, accostato alla parete, nella camera dei nonni, aveva un materasso di "sfogli" di granturco, nel quale mi piaceva sprofondare, soprattutto in quelle serate gelide, dopo le prime nevicate invernali.

La mattina dopo era ancora una giornata serena e fredda e, attraversando la chiesa per uscire sulla piazzetta inondata dal sole, avevo notato mia nonna seduta davanti al presepio, in silenziosa venerazione. Non la vedevo quasi mai in chiesa, se non per assistere alla messa e, qualche volta, alla recita del rosario. Pensai che fosse per consolarsi del ferro da stiro. Il pomeriggio le tenevo ancora compagnia, mentre preparava altre ostie che servivano per i numerosi giorni di festa che si avvicinavano, quando sentimmo rintoccare la campanella del portone della canonica. Rimasi in cucina, mentre mia nonna scendeva le scale per andare ad aprire. Si aspettava una delle solite persone che volevano parlare con mio zio, invece si trovò davanti un signore che non aveva mai visto, non molto anziano, con una barba curata, dall’aspetto gradevole e pacato, gli occhi scuri, come pure i capelli ondulati fin quasi sulle spalle. Era vestito in modo insolito, con un mantello di lana grezza, marrone scuro, ma ciò che la colpiva di più, era il fatto che non indossava i pantaloni ma una tunica lunga fino ai sandali, di foggia mai vista. Sorrideva mentre le porgeva una scatola di legno, lucido come il comò della sagrestia. Non aveva avuto il tempo di ringraziarlo e di chiedergli chi fosse perché si era subito dileguato. Ammiravo la scatola poggiata sul tavolo della cucina, mentre mia nonna la guardava sorpresa, non immaginando che cosa potesse contenere. Si capiva che era fatta da una mano esperta, le pareti non erano perfettamente lisce ma dava un’idea di solidità anche per gli incastri magistrali tra le parti in legno, come sapevano fare i falegnami di una volta. Aveva un coperchio con cerniere di ferro battuto, chiuso con un incastro. Finalmente decise di aprirlo, con un leggero sforzo. C’era della paglia che, una volta smossa, mostrava un manico di legno che mia nonna afferrò con impazienza. Si sedette e cominciò a piangere, stavolta per la sorpresa e la gioia, quando scoprì che si trattava di un ferro da stiro, identico a quello rotto, ma nuovissimo.

La lasciai sola, avevo voglia di correre lungo quella strada, fino al lavatoio e, attraversando a passo svelto la navata del santuario, passai accanto al presepio e mi parve che San Giuseppe mi avesse sorriso.

Claudio Gazzoli





domenica 13 dicembre 2020

OLTRE L'INDECENZA

 


Questa accozzaglia di figuri che, con una violenza al nostro intelletto di uomini normali, vorrebbero chiamare “presepe”, ma che invece sembra riprodurre icone di statue precolombiane, in piena sintonia con l’inebriamento amazzonico della chiesa, rappresenta il punto di arrivo di un percorso studiato a tavolino, dove proprio niente è casuale, in quest’anno in cui invece tutto sembra esserlo, ma non lo è affatto. Lo smantellamento della nostra natura primordiale, l’abrogazione definitiva del legame tra il presente e la storia, la demitizzazione del sogno, la delegittimazione della persuasione, la frantumazione del buon senso, la cancellazione furiosa della tradizione, la mortificazione diabolica della pietà popolare. Vogliono sostituire, non solo in campo religioso, i nostri archetipi di pensiero e di immaginazione con i modelli astratti dell’utopia nefasta della "nuova creazione". Non mi interessa chi lo ha realizzato e neanche chi lo ha ideato. Penso invece a chi lo ha commissionato e a chi ha approvato la sua installazione nella piazza simbolo e centro della cristianità, che piuttosto dovrebbe avere una decenza commisurata al suo ruolo. Ormai quello che a noi comuni mortali appare ovvio non lo è per queste menti singolari che hanno ricevuto dal loro interlocutore privilegiato una apparente superiorità. E questo vale per l’opportunità, per il valore simbolico, per la sacralità, per il messaggio, per l’importanza, in quel luogo e nei ricoveri delle nostre anime smarrite, dell’altissima rievocazione. Gesù non è moderno, è ETERNO. Aldo Maria Valli ha colto nel segno sottolineando: “…se poi avete con voi un bambino, impeditegli di guardare. Potrebbe restarne segnato”. Non credo ci fosse ironia in questa espressione ma, piuttosto, consapevolezza della smisurata offesa fatta soprattutto ai bambini, alla loro innocente immaginazione, per la quale Maria, Giuseppe e Gesù bambino dovrebbero, ovviamente, avere i contorni familiari della dolcezza, della bellezza genuina e umile, della purezza compiuta. Devono avere l’affinità naturale con le nostre sembianze, esaltata dalla santità. Solo che a loro dei bambini non interessa l’innocenza… San Francesco, a cui dicono di rifarsi, piange mortificato a guardare questa mostruosità. Come ho già espresso altrove, per lo scandalo che stanno sistematicamente dispensando, farebbero bene a legarsi una macina di mulino al collo e gettarsi in mare, nel tentativo di mitigare il supplizio, in virtù di un pur tardivo pentimento.

Non il simbolo rassicurante del Santo Natale ma totem dell’antinatale dell’antichiesa dell’anticristo.

Claudio Gazzoli

 

P.S.

Dedicato agli intellettuali, fini dicitori, sempre equidistanti, che ci chiedono, petulantemente, le prove.



il vero presepe... che fa venire le crisi epilettiche al diavolo e ai suoi emuli.......









venerdì 11 dicembre 2020

LA VERA MESSA

 


Facciamo sessanta chilometri per assistere alla messa in rito antico, in una diocesi vicina, perché nella nostra non viene celebrata. Entrando in questo bellissimo Santuario Mariano, in muratura e pietra, grandi colonne, archi e volte, la luce diffusa dei lampadari di Murano al posto di quella invadente, accecante dei riflettori, tre navate spaziose e lunghe file di banchi con inginocchiatoio, si viene accolti nella casa di Dio, come nel Tempio di Gerusalemme, come nelle basiliche cristiane sorte sulle fondamenta dei templi profani, come nelle chiese delle nostre parrocchie che accoglievano i fedeli fino alla rivoluzione post-conciliare e postsessantottina, fino alla disgustosa architettura liquida della modernità.

Ma non è il nostro corpo, quale espressione fisica, che interessa a Gesù, non la nostra “sensibilità”, le nostre inclinazioni, i nostri sensi, le nostre attrazioni, il nostro profano sentimentalismo. A Gesù interessa la nostra anima con la quale unicamente possiamo avvicinarci a questo mistero infinito del santo sacrificio, con l’unico mezzo della sottomissione totale al suo giogo, come ci invita Gesù stesso:

«Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero». Matteo 11, 28-30.

Sento spesso dire, da parte di fedeli e religiosi, che arrivano persino a detestare la messa in rito antico: “ma non si capisce niente, il latino poi !, il sacerdote dà le spalle ai fedeli, non c’è partecipazione, c’è troppo silenzio….”. Dinieghi che nascondono capricci, che invertono il vero orientamento dell’atto liturgico rivolgendolo verso l’uomo. Intenzioni terrene che non hanno nulla, ma proprio nulla a che fare con quelle che dovrebbero essere le disposizioni dell’anima. Sottomettersi al Suo giogo vuol dire accantonare il nostro io per partecipare, sulla salita del Calvario, alla sua passione. La messa in rito antico, per la sua monodirezionalità, il suo rigore formale, la sua completa finalizzazione alla “rinnovazione incruenta” del Sacrificio ci mette in tale disposizione. Ogni paramento, movimento, gesto, silenzio, parola sono rivolti al mistero di tale riproposizione. Ogni passo, comprese le letture dell’epistola e del Vangelo, è preghiera altissima di riverenza e sottomissione. Fin dal suo incipit dichiarato dal celebrante: «Introíbo ad altáre Dei» (“salirò all’altare di Dio”) siamo chiamati ad assistere e poi straordinariamente trasportati sulla via del Calvario, alla dolorosa, straziante, tragedia di Gesù che si umilia fino all’estremo sacrificio e, mortificando sé stesso, induce la nostra mortificazione, senza la quale nessuna salvezza è possibile. Possiamo fare compagnia alla Vergine Maria, a Giovanni e a quelli che vi hanno assistito. Possiamo affidarci a questo prodigioso annullamento del tempo e dello spazio per partecipare a quell’evento, sulla strada molto lieve per noi, ma immensamente grave per Lui, fino a quella leggera altura. Possiamo giovare dell’effetto continuo sul nostro pensare, che si prolunga oltre l'EST finale, sulla nostra vita, sul nostro umore, di quel poderoso ridimensionamento delle nostre velleità. Ma solo se siamo disposti a piegarci sotto il suo giogo.

Poi, dopo la messa, l’altare viene “smontato”, suppongo “obtorto collo”, dai religiosi devoti e decorosi di questo santuario, per trasformarlo in mensa eucaristica per la messa successiva. Dove prima c’era Gesù ora c’è il sacerdote che, invece di rivolgersi a Lui, si rivolge verso il popolo, mentre Gesù è relegato di lato, quando va bene. Nella metafora paradossale di questo cambio di scena  vi è tutta la dignità solenne che separa la tragedia dalla parodia.

Negli ultimi 50 anni, ci siamo illusi di soggiogare Dio alla nostra vanagloria, abbiamo voluto essere noi i veri, pervicaci protagonisti del palcoscenico al quale abbiamo costretto la infinita bontà di Gesù.

Dio ci offre questa sublime opportunità e noi la dissipiamo in un convivio in cui vi si concelebra la nostra penosa autorappresentazione. Abbiamo preferito l’aspetto conviviale al sacrificio, perché più in linea con la nostra odierna sensibilità che esclude la sofferenza, a favore del godimento artificiale del simulacro che ha spodestato il nostro corpo nella sua intima relazione con l’anima.

Tutto è diventato funzionale alla convivialità, il carosello delle letture, le imbarazzanti intercessioni per i “nostri governanti”, le omelie di frequente matrice politico-sociologico-ambientalista, le melodie smelenze, spesso dissonanti, l’isteria funzionale delle traduzioni, lo scompiglio patetico dello “scambio della pace”, quella finta, perché quella vera viene solo da Gesù, fortunatamente interrotto dal coronavirus, la signora in tailleur e tacchi a spillo che distribuisce l’eucarestia come caramelle, i partecipanti rigorosamente in piedi durante il rito, peraltro brevissimo, della consacrazione. Per una capovolta, ma strumentale, applicazione dell’ecumenismo, il padre non attende più il ritorno del figlio prodigo, nella speranza del pentimento, ma va in cerca di lui, neanche lontanamente ravveduto e, nondimeno, adulato, condividendone le sozzure della porcilaia.

La bellezza eccelsa dell’arte sacra sostituita dalla bruttezza infima, non già come opinione, ma come archetipo nefasto della mente. Come la bellezza era un omaggio a Dio così la bruttezza è un omaggio al suo sgradevole antagonista, di cui le immagini inquietanti presenti nella nuova versione del messale costituiscono solo la naturale prevedibile evoluzione.

Abbiamo repentinamente smantellato il patrimonio che Lo Spirito Santo ha suggerito in modo graduale, negli ultimi duemila anni. Solo gli uomini, con le loro tenebrose associazioni, fanno le rivoluzioni, quella del 1789, del 1861, del 1917 e, in ultimo, quella conciliare.

Anche se può sembrare un’utopia, sono convinto che per mettere termine alla rovina devastante della chiesa di oggi e a tutte le sue conseguenze catastrofiche in senso morale e materiale, alla deriva diabolica della nostra appartenenza, agli abusi arroganti della Sua misericordia, ai peccati che “gridano vendetta al cospetto di Dio”, sistematicamente praticati e favoriti in questi ultimi anni, la Chiesa, nella persona del papa e di tutti i cardinali, deve avere il coraggio di tornare alla liturgia e al rigore preconciliare, deve chiedere perdono a Dio di tutte, ma proprio tutte, le innumerevoli profanazioni, deve pentirsi pubblicamente delle abominevoli idolatrie compiute persino presso la tomba dell’Apostolo,  deve tornare ad ingraziarsi il favore di Dio, applicando la RETTA DOTTRINA,  cominciando con il ridare dignità al VERO SACRIFICIO della messa.

Claudio Gazzoli – Monterubbiano (FM)