Ritornavo dalla
passeggiata pomeridiana con mio nonno, approfittando del sole di una giornata
fredda di dicembre, a ridosso del Natale, lungo la strada di campagna che,
costeggiando la chiesa, arrivava fino alla fontana con la vasca e la sponda in
pietra inclinata, il lavatoio pubblico dove le donne di questo piccolo
sobborgo, a ridosso delle mura del paese, andavano, con il canestro o la tinozza
di zinco, a lavare i panni. Come tutte le strade di campagna era di terra
battuta da centinaia di anni di carri trainati dai buoi con il carico di fieno,
grano, paglia, farina, legna. Al centro vi cresceva l’erba che creava
le due corsie per camminare, quando era asciutto e il percorso adatto per non
infangarsi, dopo la pioggia. Mio nonno era alto con i capelli bianchi che gli
davano un portamento che, unito al suo camminare impettito, lo faceva sembrare
austero ma anche più burbero di quanto non fosse. Parlava poco, come tutte le
persone anziane di allora, pesando le parole, con quella intonazione
malinconica che faceva trasparire una sofferenza celata, un decoro semplice e onesto.
Aveva trascorso molti anni della sua vita in America a Filadelfia lavorando in
un grande calzaturificio e inviando alla famiglia i soldi per sopravvivere e
per far studiare mio zio che, a ridosso della maturità classica, decideva di
entrare in seminario per farsi sacerdote. Mi piaceva camminare su quella
strada, perché arrivava in piena campagna in mezzo ai campi di grano appena
spuntato, con i lunghi filari della vite sostenuta dagli aceri e il silenzio assoluto
interrotto solo dallo stridio del falco, che mio nonno prontamente mi indicava.
In questa stagione in cui fa già notte nel
pomeriggio, ci andavo da solo, anche se con un certo timore, per vedere
la via Lattea e immergermi in quel fiume di stelle affondato in un buio
profondo che, nel giro di qualche anno, non avrei più rivisto. Rientrammo da
una porta laterale, nella canonica, contigua all’abside del santuario dedicato
alla Madonna. All’inizio della scala che portava al piccolo alloggio percepii un lamento che, salendo, diventava più simile ad un pianto. Non avevo mai visto
mia nonna piangere. Era nata alla fine dell’ottocento, aveva visto due guerre devastanti,
un’epidemia violenta, una vita faticosa attraversata con la dignità solenne
delle donne di una volta. Aveva atteso per otto anni il ritorno dell’altro
figlio dalla guerra e non avrebbe mai superato il rammarico di non averlo
riconosciuto, quando era rimpatriato, uno degli ultimi prigionieri rilasciati.
Quelle donne raramente piangevano. Se ne stava accasciata su una sedia e mentre
cercavo di capire che cosa fosse accaduto, mi accorsi che sul pavimento di
mattoni c’erano due pezzi scuri, con attorno carboni e cenere sparsi, che
subito riconobbi come le due parti spaccate del ferro da stiro in ghisa. Adesso,
dopo tanti anni, in un mondo completamente cambiato, non si capirebbe perché
piangere per un vecchio elettrodomestico, così si chiama ora, rotto. Anzi,
sarebbe l’occasione per rifarlo nuovo, supertecnologico, a vapore
surriscaldato, magari ordinandolo su internet, farlo arrivare direttamente a
casa, dopo aver viaggiato per diecimila miglia da un paese lontano da cui
arrivano tutte, ma proprio tutte le cose che ci “contagiano” di felicità... Allora,
invece, in pieno medioevo, soprattutto nei nostri paesi e nelle nostre
campagne, prima dello tsunami della modernità, un ferro da stiro in ghisa, con
il manico di legno e il coperchio per riempirlo di brace, uscito dalla bottega
di un artigiano del luogo, con la base fornita da una fonderia poco distante,
costituiva un piccolo patrimonio, come la pentola in rame stagnata, la
graticola, lo scaldaletto, la lampada ad acetilene, il mortaio, il macinino, il
setaccio. Nasceva un rapporto intimo con essi, quasi a prolungamento delle mani
e della mente, collaboratori dell’essenziale di una vita fatta solo di bisogni
primari e perciò elevati. Lo aveva usato a lungo il giorno prima, per stirare
le camice di mio zio, tutte senza colletto, da indossare sotto la tonaca e il
collarino, mentre teneva il camino acceso, approfittando del fuoco per cuocere
le erbe per la cena e poi conservando l’acqua da tenere in caldo per riempire
le bottiglie di ottone, con le quali scaldarsi i piedi nel letto. Quello stesso
pomeriggio avevo aiutato mio zio, in chiesa, a sistemare il presepio, dopo aver
raccolto il muschio più fresco e avermi fatto scegliere il bambinello per la
notte di Natale. Erano statue giganti, rispetto alle mie, alcune in carta
pesta, dai lineamenti delicati, lo sguardo mite e adorante. Era un Natale
speciale perché le pareti interne, il soffitto e i mosaici dorati, erano stati
fatti ripulire da mio zio e il santuario appariva risplendente, in piena armonia
con la bellissima statua bianca della Madonna adornata di una corona d’oro. Ero
felice anche perché mia nonna avrebbe preparato le frittelle con lo strutto di
cui andavo matto. Ma adesso non sapevo che cosa dire a lei, affranta, che si
era ancora di più abbattuta quando mio nonno le disse che lo avrebbe
ricomprato al mercato di un paese lì vicino. Non si dava pace per il fatto che le
fosse sfuggito senza riuscire a riprenderlo. Ma non aveva il tempo per
continuare ad affliggersi perché quel pomeriggio doveva preparare le ostie, con
lo stampo arroventato e la pastella di acqua e farina. Mi piaceva aiutarla a
staccarle mentre mi gustavo gli scarti. Non era stata una serata come
le altre perché mia nonna non aveva superato lo sconforto e, dopo la cena
frugale e le preghiere recitate da mio zio, davanti al caminetto, mi aveva
preparato per andare a dormire. Il mio letto, accostato alla parete, nella
camera dei nonni, aveva un materasso di "sfogli" di granturco, nel quale mi
piaceva sprofondare, soprattutto in quelle serate gelide, dopo le prime
nevicate invernali.
La mattina dopo era ancora
una giornata serena e fredda e, attraversando la chiesa per uscire sulla
piazzetta inondata dal sole, avevo notato mia nonna seduta davanti al presepio,
in silenziosa venerazione. Non la vedevo quasi mai in chiesa, se non per
assistere alla messa e, qualche volta, alla recita del rosario. Pensai che
fosse per consolarsi del ferro da stiro. Il pomeriggio le tenevo ancora
compagnia, mentre preparava altre ostie che servivano per i numerosi giorni di
festa che si avvicinavano, quando sentimmo rintoccare la campanella del portone
della canonica. Rimasi in cucina, mentre mia nonna scendeva le scale per andare
ad aprire. Si aspettava una delle solite persone che volevano parlare con mio
zio, invece si trovò davanti un signore che non aveva mai visto, non molto
anziano, con una barba curata, dall’aspetto gradevole e pacato, gli occhi scuri,
come pure i capelli ondulati fin quasi sulle spalle. Era vestito in modo
insolito, con un mantello di lana grezza, marrone scuro, ma ciò che la colpiva
di più, era il fatto che non indossava i pantaloni ma una tunica lunga fino ai
sandali, di foggia mai vista. Sorrideva mentre le porgeva una scatola di legno,
lucido come il comò della sagrestia. Non aveva avuto il tempo di ringraziarlo e
di chiedergli chi fosse perché si era subito dileguato. Ammiravo la scatola
poggiata sul tavolo della cucina, mentre mia nonna la guardava sorpresa, non
immaginando che cosa potesse contenere. Si capiva che era fatta da una mano
esperta, le pareti non erano perfettamente lisce ma dava un’idea di solidità
anche per gli incastri magistrali tra le parti in legno, come sapevano fare i
falegnami di una volta. Aveva un coperchio con cerniere di ferro battuto,
chiuso con un incastro. Finalmente decise di aprirlo, con un leggero sforzo.
C’era della paglia che, una volta smossa, mostrava un manico di legno che mia
nonna afferrò con impazienza. Si sedette e cominciò a piangere, stavolta per la
sorpresa e la gioia, quando scoprì che si trattava di un ferro da stiro,
identico a quello rotto, ma nuovissimo.
La lasciai sola, avevo
voglia di correre lungo quella strada, fino al lavatoio e, attraversando a
passo svelto la navata del santuario, passai accanto al presepio e mi parve che
San Giuseppe mi avesse sorriso.
Claudio Gazzoli
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