Facciamo sessanta chilometri per assistere alla messa
in rito antico, in una diocesi vicina, perché nella nostra non viene celebrata.
Entrando in questo bellissimo Santuario Mariano, in muratura e pietra, grandi
colonne, archi e volte, la luce diffusa dei lampadari di Murano al posto di
quella invadente, accecante dei riflettori, tre navate spaziose e lunghe file
di banchi con inginocchiatoio, si viene accolti nella casa di Dio, come nel
Tempio di Gerusalemme, come nelle basiliche cristiane sorte sulle fondamenta dei
templi profani, come nelle chiese delle nostre parrocchie che accoglievano i
fedeli fino alla rivoluzione post-conciliare e postsessantottina, fino alla
disgustosa architettura liquida della modernità.
Ma non è il nostro corpo, quale espressione fisica,
che interessa a Gesù, non la nostra “sensibilità”, le nostre inclinazioni, i
nostri sensi, le nostre attrazioni, il nostro profano sentimentalismo. A Gesù
interessa la nostra anima con la quale unicamente possiamo avvicinarci a questo
mistero infinito del santo sacrificio, con l’unico mezzo della sottomissione
totale al suo giogo, come ci invita Gesù stesso:
«Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e
oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da
me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il
mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero». Matteo 11, 28-30.
Sento spesso dire, da parte di fedeli e religiosi, che arrivano persino a detestare la messa in rito antico: “ma non si capisce niente, il latino poi !, il sacerdote dà le spalle ai fedeli, non c’è partecipazione, c’è troppo silenzio….”. Dinieghi che nascondono capricci, che invertono il vero orientamento dell’atto liturgico rivolgendolo verso l’uomo. Intenzioni terrene che non hanno nulla, ma proprio nulla a che fare con quelle che dovrebbero essere le disposizioni dell’anima. Sottomettersi al Suo giogo vuol dire accantonare il nostro io per partecipare, sulla salita del Calvario, alla sua passione. La messa in rito antico, per la sua monodirezionalità, il suo rigore formale, la sua completa finalizzazione alla “rinnovazione incruenta” del Sacrificio ci mette in tale disposizione. Ogni paramento, movimento, gesto, silenzio, parola sono rivolti al mistero di tale riproposizione. Ogni passo, comprese le letture dell’epistola e del Vangelo, è preghiera altissima di riverenza e sottomissione. Fin dal suo incipit dichiarato dal celebrante: «Introíbo ad altáre Dei» (“salirò all’altare di Dio”) siamo chiamati ad assistere e poi straordinariamente trasportati sulla via del Calvario, alla dolorosa, straziante, tragedia di Gesù che si umilia fino all’estremo sacrificio e, mortificando sé stesso, induce la nostra mortificazione, senza la quale nessuna salvezza è possibile. Possiamo fare compagnia alla Vergine Maria, a Giovanni e a quelli che vi hanno assistito. Possiamo affidarci a questo prodigioso annullamento del tempo e dello spazio per partecipare a quell’evento, sulla strada molto lieve per noi, ma immensamente grave per Lui, fino a quella leggera altura. Possiamo giovare dell’effetto continuo sul nostro pensare, che si prolunga oltre l'EST finale, sulla nostra vita, sul nostro umore, di quel poderoso ridimensionamento delle nostre velleità. Ma solo se siamo disposti a piegarci sotto il suo giogo.
Poi, dopo la messa, l’altare viene “smontato”, suppongo “obtorto collo”, dai religiosi devoti e decorosi di questo santuario, per trasformarlo in mensa eucaristica per la messa successiva. Dove prima c’era Gesù ora c’è il sacerdote che, invece di rivolgersi a Lui, si rivolge verso il popolo, mentre Gesù è relegato di lato, quando va bene. Nella metafora paradossale di questo cambio di scena vi è tutta la dignità solenne che separa la tragedia dalla parodia.
Negli ultimi 50 anni, ci siamo illusi di soggiogare
Dio alla nostra vanagloria, abbiamo voluto essere noi i veri, pervicaci protagonisti
del palcoscenico al quale abbiamo costretto la infinita bontà di Gesù.
Dio ci offre questa sublime opportunità e noi la
dissipiamo in un convivio in cui vi si concelebra la nostra penosa
autorappresentazione. Abbiamo preferito l’aspetto conviviale al sacrificio,
perché più in linea con la nostra odierna sensibilità che esclude la sofferenza,
a favore del godimento artificiale del simulacro che ha spodestato il nostro
corpo nella sua intima relazione con l’anima.
Tutto è diventato funzionale alla convivialità, il
carosello delle letture, le imbarazzanti intercessioni per i “nostri
governanti”, le omelie di frequente matrice politico-sociologico-ambientalista,
le melodie smelenze, spesso dissonanti, l’isteria funzionale delle traduzioni, lo
scompiglio patetico dello “scambio della pace”, quella finta, perché quella
vera viene solo da Gesù, fortunatamente interrotto dal coronavirus, la signora
in tailleur e tacchi a spillo che distribuisce l’eucarestia come caramelle, i
partecipanti rigorosamente in piedi durante il rito, peraltro brevissimo, della
consacrazione. Per una capovolta, ma strumentale, applicazione dell’ecumenismo,
il padre non attende più il ritorno del figlio prodigo, nella speranza del
pentimento, ma va in cerca di lui, neanche lontanamente ravveduto e, nondimeno, adulato, condividendone le sozzure della porcilaia.
La bellezza eccelsa dell’arte sacra sostituita dalla
bruttezza infima, non già come opinione, ma come archetipo nefasto della mente.
Come la bellezza era un omaggio a Dio così la bruttezza è un omaggio al suo
sgradevole antagonista, di cui le immagini inquietanti presenti nella nuova
versione del messale costituiscono solo la naturale prevedibile evoluzione.
Abbiamo repentinamente smantellato il patrimonio che Lo
Spirito Santo ha suggerito in modo graduale, negli ultimi duemila anni. Solo
gli uomini, con le loro tenebrose associazioni, fanno le rivoluzioni, quella
del 1789, del 1861, del 1917 e, in ultimo, quella conciliare.
Anche se può sembrare un’utopia, sono convinto che per
mettere termine alla rovina devastante della chiesa di oggi e a tutte le sue
conseguenze catastrofiche in senso morale e materiale, alla deriva diabolica
della nostra appartenenza, agli abusi arroganti della Sua misericordia, ai
peccati che “gridano vendetta al cospetto di Dio”, sistematicamente praticati e
favoriti in questi ultimi anni, la Chiesa, nella persona del papa e di tutti i
cardinali, deve avere il coraggio di tornare alla liturgia e al rigore preconciliare,
deve chiedere perdono a Dio di tutte, ma proprio tutte, le innumerevoli
profanazioni, deve pentirsi pubblicamente delle abominevoli idolatrie compiute
persino presso la tomba dell’Apostolo, deve
tornare ad ingraziarsi il favore di Dio, applicando la RETTA DOTTRINA, cominciando con il ridare dignità al VERO
SACRIFICIO della messa.
Claudio
Gazzoli – Monterubbiano (FM)
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