mercoledì 24 dicembre 2025

L'ULTIMA PASTORELLA

 


Noi bambini sapevamo sì e no dove viveva. Abitava da solo e faceva una vita appartata; lo incontravo di rado in giro, a volte mentre usciva dal bar dove andava a farsi il bicchierino di mistrà. Era un tipo burbero ma particolare, un tipo insomma, una natura propria che lo distingueva dagli altri, ognuno irripetibile nelle comunità di allora, nel bene e nel male, perché la quotidiana lotta per la vita modellava i caratteri in modo artigianale, prima della grande omologazione industriale. Nessuno di noi aveva mai visto casa sua. Ebbi occasione di entrarci, accompagnando il sacerdote per la benedizione delle case, la settimana dopo Pasqua di quello stesso anno. Viveva nella parte ovest del paese, lungo una piazzetta senza uscita, dietro ad un muro che delimitava un piccolo orto. La casa aveva solo il piano terra, con il tetto molto basso sopra al quale si vedevano i coppi malconci, dai quali spuntava l’erba murana, tra il verde intenso del muschio. Entrammo in un grande, unico stanzone, illuminato da una piccola finestra, dalle pareti coperte di fuliggine di cui si sentiva l’odore acre, mentre dalle travi di legno del soffitto, che si potevano quasi toccare, pendevano antiche ragnatele, anch’esse annerite dal fumo. Il locale era occupato quasi del tutto da vecchi pianoforti, in attesa di essere riparati e accordati, da sedie spagliate, e, in fondo, accanto ad una piccola finestra, un pagliericcio molto simile a quello di sfogli di granturco, su cui dormivo quando ero dai miei nonni. Poi, su un lato, il camino col fuoco acceso, su cui era sospesa una stagnata, anch’essa nera di fumo, davanti al quale era seduto il padrone di casa che si alzò a fatica appena ci vide entrare. Era un uomo smilzo, forse attorno ai settanta, leggermente curvo, dai lineamenti scavati e il colorito scuro, i capelli ispidi ed ancora neri, con una giacca lisa di velluto sopra ad un dolcevita di lana grezza. Si schiarì la voce, accennò ad un sorriso, e gli uscì un “salve !”, rauco ma familiare, perché lui era l’organista delle due chiese del paese.

Era la sera di Natale di quello stesso anno e si avvertiva la festa tanto attesa, nell’aria e nelle cose, dalla luce fioca degli addobbi filtrata dalle finestre, dagli odori dei preparativi anticipati per il pranzo del giorno dopo, la gallina o il cappone per il brodo, i dolci natalizi, il croccante, “lu fistringu”, la pizza con i fichi. Era una serata fredda nel clima ma mite, calma nei sentimenti. Tirava un vento gelido da est, come a volte capita da queste parti, nei paesi arroccati sull’Adriatico. Nella nostra percezione del tempo, scandito dalle feste religiose, era il tempo della gioia, del calore divino venuto a scaldare le nostre piccole vite. Noi bambini cercavamo di resistere fino a tardi, giocando a tombola, anche perché c’era un’attesa speciale, per la messa di mezzanotte e per quella, solenne, del giorno di Natale. Erano quelle le due uniche occasioni in cui l’organista era solito suonare, al termine della liturgia, un pezzo magistrale che veniva chiamato “pastorella”, che dicevano avesse composto lui stesso ma che, probabilmente, aveva rielaborato da un brano musicale del seicento tedesco. La particolarità era data dal fatto che ogni anno vi apportava nuove variazioni, ritornelli, motivi, che lo rendevano unico e ne attiravano l’attesa.
La chiesa era stracolma, in piedi affollavano le navate fino al limite della balaustra, davanti al canestro con il bambinello che di lì a poco sarebbe stato scoperto. Ero impegnato al servizio dell’altare, nella liturgia di cui allora non percepivo la magnificenza, non era ancora avvenuto il cataclisma della rivoluzione. Si conosce a fondo l’essenza vera della perfezione solo quando arriviamo a soffrire per la sua pietosa parodia. Poi l’invocazione finale del celebrante, cantata in gregoriano, “ite missa est”.
Un breve silenzio, rotto solo dal rumore dei mantici azionati per dare aria all’organo, precedette l’attacco della “pastorella”. Lo avevano visto arrivare “accaldato”, con la punta del naso rosso paonazzo, ma quella sera l’organista volle dare il meglio di sé, quasi con il presentimento, come poi si avverò, che sarebbe stata l’ultima volta. L’attacco con il pieno dell’organo fece trasalire i presenti che davano le spalle allo strumento posizionato in alto, sopra l’ingresso della chiesa, anche se erano pochi quelli che si voltavano, perché sapevano che, in chiesa, non si danno le spalle al Santissimo. Poi la melodia, gioiosa e fluttuante, i trilli velocissimi, con le variazioni, le ripetizioni che l’esecutore, in modo improvvisato vi inseriva.
Quell’organo, aveva un registro particolare che imitava la cornamusa, che, forse perché logorato, faceva uscire un suono quasi stridulo, lamentevole, curiosamente simile al verso delle papere, ma squillante ed intonato. L’esecuzione della stessa melodia in quel registro, da solo, era l’apoteosi che introduceva, in modo sublime, al grande mistero della notte di Natale. Quindi l’accordo finale, con il pieno dell’organo, lunghissimo, travolgente, inebriante. Poi un silenzio sospeso, in un’epoca in cui ancora non era arrivata, per fortuna, la moda degli applausi, prima del brusio della calca all’uscita dalla chiesa. Con la cotta sotto il braccio presi il lungo corridoio dell’uscita laterale, quando mi investì una ventata di aria gelida. Intravidi, nel buio completo, un chiarore proveniente dall’esterno, che diventava sempre più luminoso, finché, arrivato sulla piccola porta di ingresso, mi accorsi che fuori era tutto bianco di neve appena caduta. Pensai che quel Natale sarebbe stato indimenticabile e, forse, irripetibile, perché, come capii molto più tardi, l’aria stava cambiando.
Il Signore riserva un posto speciale per gli artigiani della Sua Lode. Buon Natale, maestro Giannelli.
Claudio Gazzoli





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